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Il calcio e il Costa Rica: economia, cultura e identita’ nazionale

Per il Costa Rica il calcio ha sempre rappresentato lo sport nazionale: con effetti economici, formativi e, soprattutto, culturali.

Il calcio ha inoltre contribuito al consolidamento e rafforzamento della coscienza nazionale costaricana, che proprio in due momenti sportivi degli ultimi 30 anni ha vissuto fasi fondamentali: i Mondiali di Italia 1990 e di Brasile 2014.

È utile a tal fine riflettere, ripercorrendo i momenti salienti di queste due competizioni, su come in realtà politiche ridotte e fragili come il Costa Rica (e tanti altri paesi) il calcio e lo sport in generale svolga una funzione politica, sociale e culturale di primaria importanza, molto più di quanto non faccia in contesti politici sviluppati dove, anzi, talvolta è elemento di divisione.

Nel 1990, alla sua prima partecipazione assoluta a un Mondiale, il Costa Rica stupì il mondo con una storica cavalcata in Italia, sfidando ogni pronostico: considerata una delle squadre più deboli del torneo, la nazionale centroamericana si ritrovò in un girone complicato con Brasile, Scozia e Svezia, ma si fece notare per spirito di sacrificio, organizzazione e determinazione.
All’esordio il Costa Rica ottenne una vittoria fondamentale battendo la Scozia per 1-0, grazie a un gol di Juan Cayasso. Il risultato sorprese analisti e tifosi ma fu la seconda partita contro il Brasile, che si concluse con una sconfitta per 1-0, a mostrare tuttavia la solidità della squadra guidata dal tecnico jugoslavo Bora Milutinović.
Nel terzo match, decisivo per la qualificazione, il Costa Rica riuscì a rimontare e battere la Svezia 2-1, con gol di Roger Flores e Hernán Medford, questa vittoria consentì alla squadra di chiudere il girone al secondo posto, centrando un’impresa storica: l’accesso agli ottavi di finale; negli ottavi, però, il sogno si fermò contro la Cecoslovacchia, che vinse 4-1.
Nonostante l’eliminazione, l’avventura in Italia fu memorabile: per un paese con una tradizione calcistica limitata, fu un risultato clamoroso che accese l’orgoglio nazionale e i protagonisti di quel percorso sportivo, tra cui Medford, Cayasso e Conejo, divennero eroi sportivi nazionali, simbolo di un’identità calcistica in costruzione.

La partecipazione del Costa Rica a Italia ’90 segnò l’inizio di una nuova era per lo sport del paese, ispirando generazioni future e aprendo la porta al calcio mondiale.

Fu però con il Mondiale Brasile 2014, dove il Costa Rica fu protagonista di una delle favole più sorprendenti della storia del calcio, che si consolidò una coscienza sportiva nazionale definita e sentita dalla cittadinanza tutta. Considerato infatti un’outsider, il Costa Rica finì nel temuto “girone della morte” con Italia, Uruguay e Inghilterra, tutte ex campioni del mondo.

Guidati dal tecnico colombiano Jorge Luis Pinto, i costaricani mostrarono una preparazione tattica notevole: 5-4-1 in fase difensiva e transizioni rapide in attacco.

All’esordio, travolsero l’Uruguay 3-1 con pressing alto, marcature strette e verticalizzazioni improvvise; contro l’Italia invece adottarono un blocco medio-basso ben organizzato, chiudendo gli spazi e colpendo con un contropiede letale, concluso da Bryan Ruiz per l’1-0 decisivo. L’Inghilterra fu bloccata sullo 0-0 con una difesa a cinque compatta e linee ravvicinate. Il Costa Rica chiuse il girone al primo posto, imbattuto e con soli un gol subito.

Negli ottavi di finale affrontò la Grecia: in inferiorità numerica per 30 minuti, resistette con grande spirito di squadra, trascinata da un superbo Keylor Navas, e vinse ai rigori (5-3).

Ai quarti contro l’Olanda, i “ticos” applicarono uno schema ultra-difensivo con raddoppi sistematici sugli esterni olandesi. Dopo 120 minuti di sofferenza, uscirono ai rigori (3-4), ma senza mai perdere nei tempi regolamentari.

Tecnicamente, il Costa Rica si distinse per una notevole lucidità mentale nei momenti chiave; Keylor Navas, decisamente rilevante durante tutto il percorso mondiale, fu il simbolo di una nazionale solida, concreta e sorprendente. L’impresa accese l’orgoglio nazionale: il Costa Rica passò da outsider a modello tattico e ispirazione globale, dimostrando che organizzazione, disciplina e cuore possono sfidare ogni gerarchia nel calcio mondiale. Il calcio si trasformò in strumento di coesione sociale e identitaria, con la squadra a rappresentare valori di disciplina, resilienza e speranza.

Navas, Ruiz, Campbell e compagni divennero eroi civili, e l’intero cammino fu vissuto come un riscatto simbolico, in un Paese senza esercito ma capace di imporsi con il talento e l’organizzazione.

Il Costa Rica possiede una struttura sportiva tra le più sviluppate in America Centrale: grazie a un sistema educativo capillare, i giovani possono praticare sport fin dalla scuola, con il calcio come disciplina di riferimento.
Nel confronto regionale, unico rivale reale è Panama, con capacità simili ma un palmarès ben inferiore.

Il campionato nazionale è competitivo nonostante l’esiguo numero di squadre: titoli che cambiano spesso padrone e tifoserie appassionate lo rendono uno spettacolo seguito e sentito. Squadre come Saprissa (40 scudetti) o Alajuelense (30 titoli) detengono gran parte della storia calcistica nazionale.

A livello internazionale, la nazionale costa­ricana ha disputato ben sei Mondiali, partendo da Italia ‘90, il primo e per questo considerato di fondamentale importanza e Brasile 2014, performance storica per il paese che ha galvanizzato l’intera nazione.

Inoltre infrastrutture come l’Estadio Nacional di San José (35 000 posti, inaugurato nel 2011) e lo stadio di Saprissa (“La Cueva del Monstruo”) hanno qualificato il paese come polo sportivo moderno e accogliente, rafforzando la presenza dello sport nella vita quotidiana e turistica.

Sul piano politico e sociale, il Costa Rica beneficia di prestigio internazionale attraverso lo sport: diventare una delle squadre più forti della regione significa attirare turismo, sponsorizzazioni e attenzione mediatica, laddove la partecipazione del paese alle competizioni è un modo per “apparire sulla mappa” e rivendicare una certa rilevanza sportiva. Inoltre, competere ad alto livello aiuta a compattare l’identità nazionale, offrendo simboli condivisi di orgoglio e appartenenza, in un contesto politico stabile ma privo di grandi momenti simbolici e, anzi, sempre più vulnerabile alle differenze economiche e politiche che si sono andate rafforzando negli ultimi anni nella popolazione.

A differenza di potenze nordamericane o europee, il paese non si è costruito su eventi storici drammatici o conflitti, rendendo la via sportiva un canale efficace per rafforzare il senso di comunità e di appartenenza nazionale, anche attraverso la mitizzazione delle squadre, degli allenatori e dei giocatori vincenti. L’assenza di figure politiche o culturali di rilievo internazionale sicuramente rende i calciatori una valida alternativa, quantomeno per la stragrande maggioranza della popolazione che segue il calcio.

Infatti, come nel ‘90 e nel ‘14, la narrazione costruita intorno al percorso sportivo del paese ai mondiali fu estremamente romanticizzata: a livello internazionale il racconto (molto comune nel mondo sportivo in realtà) della “favola sportiva” della piccola squadra, proveniente dal piccolo paese, che compete, vincendo, contro i “giganti” dello sport sicuramente risultò ben riuscito: trasmettendo un senso di percorso epico che poi effettivamente catturò l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale.

Nella prospettiva nazionale invece la costruzione di una partecipazione collettiva all’evento sportivo fece sentire ogni costaricano coinvolto e utile al risultato della squadra, tanto che sia nel ‘90 che nel ‘14 vennero concessi ai lavoratori permessi straordinari per seguire le partite.

Dunque è innegabile la grande funzione aggregativa del calcio in Costa Rica: in contesti culturali come questo è difficile rafforzare l’identità nazionale della popolazione senza riferimenti storici forti. Una riflessione utile a capire le dinamiche sociologiche di paesi strutturalmente diversi dal nostro, che dimostra anche però quanto anche senza la necessaria esasperazione di caratteri nazionali tradizionalistici e culturali forti, magari legati anche a episodi storici violenti, si possa costruire una coscienza collettiva altrettanto forte e, forse, anche più sana.